Protocolli di trattamento per i disturbi dell’alimentazione: attitudini, preoccupazioni e difficoltà dei clinici nell’eseguire interventi psicologici basati sull’evidenza.

A cura di Massimiliano Sartirana

Fonte: Waller G. Treatment Protocols for Eating Disorders: Clinicians’ Attitudes, Concerns, Adherence and Difficulties Delivering Evidence-Based Psychological Interventions. Curr Psychiatry Rep; 2016, 18: 36.

Glenn Waller ha recentemente pubblicato un articolo in cui tenta di indagare il tema complesso dei motivi per cui i clinici che curano i disturbi dell’alimentazione non aderiscono ai protocolli dei trattamenti basati sull’evidenza, nonostante numerose evidenze ne abbiano dimostrato la loro applicabilità nella realtà clinica.

Waller ritiene che le difficoltà a seguire terapie basate sull’evidenza possano essere attribuibili a tre fattori principali: (i) i servizi clinici; (ii) i pazienti e (iii) i terapeuti.

In alcuni servizi clinici operano equipe che hanno un forte resistenza all’introduzione di procedure basate sull’evidenza. A tal proposito cita il caso di Lowe e colleghi che stanno trovando molta difficoltà a introdurre un modulo di “normalizzazione dell’alimentazione” in un servizio clinico per i disturbi dell’alimentazione.

Alcuni pazienti, condizionati dalle loro preoccupazioni sul peso e sulla forma del corpo, sono spesso portati a preferire trattamenti meno minacciosi che omettono elementi chiave dei trattamenti basati sull’evidenza, come la misurazione del peso regolare in seduta e il monitoraggio dell’alimentazione in tempo reale.

Tra i terapeuti è comune “l’affiliazione all’ipotesi” ovvero la speculazione che solo chi crede nell’efficacia della terapia sarà efficace nel condurla. Nell’ambito dei disturbi dell’alimentazione questa ipotesi è stata decisamente contraddetta dal lavoro di Poulsen e colleghi in cui si è evidenziato che i terapeuti convinti dell’approccio psicodinamico hanno ottenuto un tasso di remissione inferiore nei pazienti affetti da bulimia nervosa rispetto a quello ottenuto dalla CBT-E. Inoltre le convinzioni e le attitudini dei terapeuti hanno una forte influenza sulla pratica clinica. Per esempio, al di fuori dell’ambito dei disturbi dell’alimentazione, si è evidenziato che i terapeuti si sentono più efficaci di quanto lo siano realmente e non c’è motivo per credere che questo non si verifichi anche per i terapeuti che si occupano di disturbi dell’alimentazione. Alcuni clinici, inoltre, non sono a conoscenza dell’esistenza di manuali e di protocolli e altri mantengono attitudini negative verso questi approcci o nell’ipotesi migliore solo per alcuni elementi del trattamento. È il caso di situazioni in cui sono sopravvalutati il lavoro sulla motivazione prima della terapia o l’importanza di garantire lo sviluppo di una forte alleanza terapeutica al fine di facilitare un cambiamento. Al contrario sono spesso sottovalutati alcuni elementi chiave della terapia come la misurazione regolare del peso della paziente. Spesso, inoltre, i terapeuti deviano da alcune procedure chiave per ridurre la loro ansia. Un esempio tipico può essere quello del terapeuta che si sposta a discutere le cause del disturbo dell’alimentazione tralasciando di affrontare i fattori di mantenimento e il recupero del peso nei pazienti malnutriti.  Infine, alcuni clinici non offrono ai pazienti trattamenti basati sull’evidenza giustificandosi che curano casi cronici, complessi e in comorbilità anche se l’evidenza non supporta tali motivazioni come ragione del loro mancato utilizzo.

Waller fa notare che il tempo medio attraverso cui i risultati della ricerca entrano nella pratica clinica abituale è di circa 15-20 anni. In alcuni casi un tempo cosi lungo è dovuto alla mancata conoscenza dell’esistenza di trattamenti per curare i vari disturbi, in altri casi alla resistenza dei servizi e dei terapeuti. Se il problema della conoscenza può essere facilmente superato con metodi didattici, diversa è la questione di insegnare e di convincere i terapeuti ad adottare in modo ottimale i trattamenti basati sull’evidenza. I tradizionali seminari di due giorni possono, infatti, influenzare la conoscenza, ma non si sa se essa poi si trasforma in competenza e in aderenza ai protocolli basati sull’evidenza.

La supervisione è una delle strategie per assicurarsi che i clinici aderiscano al protocollo terapeutica. È necessario però che il supervisore abbia un’adeguata formazione ed esperienza oltre che l’abilità a insegnare ai terapeuti come aderire al protocollo. L’altra questione legata alla supervisione riguarda il metodo per valutare adeguatamente le qualità del terapeuta supervisionato. A tal riguardo Waller fa notare che per questo aspetto in ambiti diversi da quello dei disturbi dell’alimentazione, la ricerca ha portato alla preoccupante conclusione che i supervisori sovrastimano le abilità cliniche dei terapeuti che supervisionano con l’effetto probabile che essi continuano a deviare dal protocollo.

Infine, un altro aspetto importante per convincere i clinici a cambiare la loro pratica clinica è quello di insegnarli a raccogliere i dati per misurare gli esiti del loro intervento. Waller riporta che sono pochissimi i servizi clinici che praticano una raccolta dei dati di esito dei trattamenti somministrati, probabilmente per mancanza di conoscenze o del tempo necessario per eseguire tali valutazioni. Anche in questo caso l’evidenza proveniente da ambiti diversi da quello dei disturbi dell’alimentazione ha evidenziato dati preoccupanti. Molti clinici, infatti, hanno poco interesse o volontà di collezionare i dati di esito delle loro terapie considerandoli irrilevanti, inconvenienti e minacciosi. Il risultato è che questi dati sono spesso ignorati e non sono implementate azioni per migliorare lo standard terapeutico.