Anoressia nervosa e altri disturbi dell’alimentazione: è necessario ed urgente investire più risorse nella ricerca e migliorare l’utilizzo delle poche risorse attualmente disponibili

Riccardo Dalle Grave e Simona Calugi
Associazione Italiana Disturbi dell’Alimentazione e del Peso (AIDAP)

I disturbi dell’alimentazione sono causa di importante morbilità e mortalità negli adolescenti e nei giovani adulti. L’anoressia nervosa, in particolare, ha il più elevato tasso di mortalità rispetto a qualsiasi disturbo mentale, inclusa la depressione maggiore: un’affermazione confermata da due importanti revisioni sistematiche.

La prima revisione, eseguita dal prof. Steinhausen su 119 campioni di pazienti (per un totale di 3147 pazienti), ha trovato che il 46,9% delle persone con anoressia nervosa raggiunge la remissione, il 33,5% migliora mantenendo alcune caratteristiche residue, il 20,8 % ha un decorso persistente e il 5% muore in conseguenza del disturbo dell’alimentazione (Steinhausen, 2002). Il tasso di mortalità e remissione è più basso nelle persone con l’insorgenza dell’anoressia nervosa nell’adolescenza, rispetto a quelle con una più ampia età di insorgenza. A un follow-up a più di 10 anni, sebbene il 73,2% delle persone raggiunga la remissione dall’anoressia nervosa, il 9,4% muore in conseguenza del disturbo dell’alimentazione. I predittori di esito scadente sembrano essere il basso indice di massa corporea (IMC), la maggiore gravità di problemi psicologici e sociali, la presenza di vomito autoindotto e l’uso improprio di lassativi.

La seconda revisione, di Arcelus e colleghi, ha analizzato 35 studi (12.808 pazienti) con un follow-up medio di 12,86 anni, e ha trovato un tasso standardizzato di mortalità (cioè il rapporto tra decessi osservati e decessi attesi per età e genere) per l’anoressia nervosa di 5,86, per la bulimia nervosa di 1,92 e per i disturbi dell’alimentazione non altrimenti specificati dell’1,92 (Arcelus, Mitchell, Wales, & Nielsen, 2011). Questo significa che per le pazienti con anoressia nervosa il rischio di mortalità è quasi 6 volte più alto rispetto a quello delle persone di pari età e genere senza l’anoressia nervosa. Inoltre, un quinto delle morti nelle persone con anoressia nervosa è dovuto al suicidio.

In Italia, non essendoci un osservatorio epidemiologico, purtroppo non abbiamo dati nazionali attendibili sul tasso di mortalità e sugli esiti dell’anoressia nervosa e degli altri disturbi dell’alimentazione, ma è verosimile che  rispecchino quelli riportati dalla letteratura internazionale. Inoltre, la situazione sembra essere nettamente peggiorata durante l’attuale periodo di pandemia da COVID-19. Infatti, oltre al confermato marcato aumento di incidenza dei disturbi dell’alimentazione, stimato essere il 15,3% più alto nel 2020 rispetto agli anni precedenti (Taquet, Geddes, Luciano, & Harrison, 2021), i media e i social riportano a cadenza quasi settimanale drammatici resoconti di ragazze, ragazzi e adulti morti in conseguenza dell’anoressia nervosa o di altri disturbi dell’alimentazione.

Non ci sono soluzioni semplici e veloci per migliorare l’esito dei trattamenti e ridurre la mortalità dei disturbi dell’alimentazione. È indubbio, però, che sia necessario investire molte più risorse nella ricerca di questi disturbi.

In Italia la ricerca di base sui disturbi dell’alimentazione, per la quasi totale assenza di fondi, è praticamente inesistente. La ricerca clinica è invece portata avanti da pochi gruppi che, con sforzi individuali notevoli sono risusciti a migliorare la conoscenza sugli esiti dei trattamenti, tanto da ricevere riconoscimenti a livello internazionale. In altri paesi del mondo occidentale la situazione è diversa. Il governo australiano ha recentemente destinato 26,9 milioni di dollari australiani alla ricerca sui disturbi dell’alimentazione, una cifra che include anche 13 milioni di dollari australiani per istituire un National Eating Disorder Research Centre. Questo investimento, da cui i nostri politici dovrebbero prendere esempio, fa parte di un progetto decennale lungimirante che guiderà la ricerca, la prevenzione e il trattamento e trasformerà, per migliorarlo, il modo in cui saranno curati quasi un milione di australiani che soffrono di anoressia nervosa, bulimia nervosa e altri disturbi dell’alimentazione.

Nell’attesa, speriamo, che siano dedicati più fondi alla ricerca sui disturbi dell’alimentazione anche in Italia, è urgente sviluppare delle strategie per migliorare l’utilizzo delle poche risorse attualmente disponibili. I problemi da affrontare per riuscire ad offrire ai pazienti la garanzia di essere curati con i migliori trattamenti attualmente disponibili sono molteplici.

In primo luogo, i centri clinici in Italia sono distribuiti a macchia di leopardo, con alcune regioni che sono in grado di fornire ai pazienti tutti i livelli di cura (dalla terapia ambulatoriale al ricovero), coordinati secondo un modello a rete di centri di riferimento, e altre in cui sono mancanti soprattutto i livelli di cura più intensivi.

In secondo luogo, le opzioni di trattamento offerte ai pazienti affetti da disturbi dell’alimentazione nei servizi clinici esistenti dipendono dalle risorse disponibili e dalla formazione ricevuta dai clinici. Anche se sono disponibili trattamenti psicologici evidence-based, come la terapia cognitivo comportale migliorata (CBT-E) (Dalle Grave & Calugi, 2020; Fairburn, 2008) e il trattamento basato sulla famiglia (FBT) (Lock & Le Grange, 2013), essi sono raramente somministrati ai pazienti oppure, quando lo sono, i terapeuti deviano spesso dal protocollo raccomandato, dimenticando di utilizzare alcune procedure, oppure omettendole di proposito o introducendo procedure non previste (Waller & Turner, 2016). Questo fa sì che i pazienti ricevano trattamenti non ottimali, con effetti potenzialmente non prevedibili sull’esito. Oltre a questo, nella maggior parte dei casi in cui il paziente ha la necessità di vedere più professionisti per affrontare il disturbo dell’alimentazione, vengono somministrati trattamenti eclettici in cui si combinano, non sempre in modo coerente, psicoterapie generiche di diversa natura con interventi nutrizionali prescrittivi e psicofarmacologici, dettati principalmente dalla formazione ricevuta dai vari operatori e non da un modello teorico comune specifico per la cura dei disturbi dell’alimentazione (Waller & Turner, 2016).

In terzo luogo, in alcuni servizi clinici c’è un’enfasi eccessiva sul ricovero, ed è comune per i pazienti ricevere cure completamente diverse, sia in termini di teoria che di contenuti, quando passano da una forma meno intensiva di cura (per es. il trattamento ambulatoriale) a una più intensiva (per es. il trattamento riabilitativo ospedaliero) e viceversa. Questo crea discontinuità nel percorso di cura e disorienta comprensibilmente i pazienti sulle strategie e procedure da utilizzare per affrontare il disturbo dell’alimentazione. Alcuni centri di ricovero, inoltre, hanno liste d’attesa eccessivamente lunghe rendendo difficile la gestione del paziente in attesa del ricovero. Infine, pochi centri clinici raccolgono dati sull’esito dei trattamenti a breve e a lungo termine, non avendo così la possibilità di valutare l’efficacia dell’intervento proposto ed eventualmente apportare modifiche volte al suo miglioramento.

L’obiettivo primario per modificare la situazione attuale dovrebbe essere riuscire a offrire, il prima possibile, alla maggior parte dei pazienti, un trattamento ben somministrato basato sull’evidenza scientifica. Le terapie basate sull’evidenza sono poco costose, perché sono somministrate da un “singolo” terapeuta (CBT) o da due terapeuti (FBT) in 20-40 sedute, e determinano, nei 2/3 dei pazienti che concludono il trattamento (circa l’80%), una remissione duratura dal disturbo dell’alimentazione. I vantaggi di questi trattamenti, che includono alti livelli di efficacia e bassi costi sono, però, realizzabili soltanto se i terapeuti hanno ricevuto una formazione adeguata e continuano ad applicare l’intervento con il miglior grado di aderenza, altrimenti i tassi di risposta si riducono drasticamente.

In Italia purtroppo anche i terapeuti specializzati nel trattamento dei disturbi dell’alimentazione, raramente ricevono una formazione sulle psicoterapie basate sull’evidenza. Per tale motivo è necessario sviluppare nuove modalità di formazione, come per esempio, corsi post-universitari specificatamente costruiti per formare i terapeuti e far acquisire loro le abilità necessarie per usare queste forme di psicoterapia. I corsi dovrebbero includere le metodologie abitualmente usate per formare i clinici negli studi controllati, come la disponibilità di un manuale, l’uso di un approccio didattico interattivo, l’osservazione di sedute condotte da terapeuti esperti e la pratica del role-playing. Inoltre, uno spazio rilevante dovrebbe essere occupato dalle supervisioni di casi clinici, che oltre a migliorare la competenza dei terapeuti mantiene la fedeltà al trattamento.

Ai pazienti che non rispondo agli interventi ambulatoriali basati sull’evidenza scientifica dovrebbero essere offerti trattamenti più intensivi come il day-hospital o il ricovero in centri di riferimento altamente specializzati. In questi centri è offerta in genere una vasta gamma di procedure mediche, psichiatriche, psicologiche ed educative che non sempre sono coerenti tra loro e che portano a fornire messaggi contradittori ai pazienti. Per far fronte a questo problema è auspicabile che anche nei centri intesivi di cura sia offerto ai pazienti un approccio coerente e che i terapeuti, pur mantenendo i loro ruoli professionali specifici, condividano lo stesso modello teorico e adottino interventi basati sull’evidenza. Tali competenze dovrebbero essere acquisite attraverso programmi di formazione specifici che si aggiungano al percorso formativo di base del singolo professionista nella propria disciplina di pertinenza.

Dopo la dimissione è inoltre indispensabile, per limitare il tasso di ricaduta che affligge i trattamenti intensivi, fornire ai pazienti un trattamento ambulatoriale che non sia in contraddizione con quanto fatto durante il ricovero.

Per i pazienti che non rispondono a più trattamenti ambulatoriali e intensivi ben somministrati può essere presa in considerazione la somministrazione di interventi che hanno l’obiettivo primario di migliorare la qualità di vita, piuttosto che la riduzione dei sintomi o la remissione (Hay & Touyz, 2015). Questa decisione va, comunque, presa con cautela, perché comporta l’impossibilità per i pazienti di ottenere la remissione completa e li espone al rischio di sviluppare complicanze e danni fisici e psicologici di gravità crescente. La ricerca, in questo senso, sottolinea che anche i pazienti con una lunga durata del disturbo dell’alimentazione, se ingaggiati attivamente nel trattamento possono raggiungere la remissione o comunque un notevole miglioramento della loro psicopatologia e del loro stato nutrizionale (Calugi, El Ghoch, & Dalle Grave, 2017).

Infine, è fondamentale ed urgente migliorare la gestione gravemente deficitaria dei pazienti con disturbi dell’alimentazione che presentano un’instabilità medica. Il Ministero della Salute ha recentemente aggiornato gli “Interventi per l’accoglienza, il triage, la valutazione ed il trattamento del paziente con disturbi della nutrizione e dell’alimentazione. Percorso lilla in pronto soccorso (Revisione 2020)”, in cui sono specificati in dettaglio anche i criteri di ospedalizzazione. Ma, in assenza di letti per acuti dedicati alla gestione dei disturbi dell’alimentazione, le ottime indicazioni riportate nel documento rimangono sulla carta e tuttora molti pazienti sono rimandati a casa senza un adeguato trattamento e percorso terapeutico sebbene presentino un quadro clinico e delle condizioni mediche di instabilità che richiedono un ricovero urgente in un reparto di pediatria o internistico.

Referenze

Arcelus, J., Mitchell, A. J., Wales, J., & Nielsen, S. (2011). Mortality rates in patients with anorexia nervosa and other eating disorders. A meta-analysis of 36 studies. Archives of General Psychiatry, 68(7), 724-731. doi:10.1001/archgenpsychiatry.2011.74

Calugi, S., El Ghoch, M., & Dalle Grave, R. (2017). Intensive enhanced cognitive behavioural therapy for severe and enduring anorexia nervosa: a longitudinal outcome study. Behaviour Research and Therapy, 89, 41-48. doi:10.1016/j.brat.2016.11.006

Dalle Grave, R., & Calugi, S. (2020). Cognitive behavior therapy for adolescents with eating disorders. New York: Guilford Press.

Fairburn, C. G. (2008). Cognitive behavior therapy and eating disorders. New York: Guilford Press.

Hay, P., & Touyz, S. (2015). Treatment of patients with severe and enduring eating disorders. Current Opinion in Psychiatry, 28(6), 473-477. doi:10.1097/yco.0000000000000191

Lock, J., & Le Grange, D. (2013). Treatment manual for anorexia nervosa: A family-based approach (2nd ed.). New York: Guilford Press.

Steinhausen, H. C. (2002). The outcome of anorexia nervosa in the 20th century. American Journal of Psychiatry, 159(8), 1284-1293. doi:10.1176/appi.ajp.159.8.1284

Taquet, M., Geddes, J. R., Luciano, S., & Harrison, P. J. (2021). Incidence and outcomes of eating disorders during the COVID-19 pandemic. The British Journal of Psychiatry, 1-3. doi:10.1192/bjp.2021.105

Waller, G., & Turner, H. (2016). Therapist drift redux: Why well-meaning clinicians fail to deliver evidence-based therapy, and how to get back on track. Behaviour Research and Therapy, 77, 129-137. doi:10.1016/j.brat.2015.12.005