Anoressia nervosa cronica o anoressia nervosa grave e di lunga durata: l’importanza delle definizioni

Riccardo Dalle Grave

L’anoressia nervosa (AN) è un disturbo che si presenta in modo variabile; in molti adolescenti è di breve durata e guarisce con i trattamenti disponibili, ma in circa il 20% delle persone colpite ha un decorso persistente [1]. In questi casi l’AN si associa spesso a gravi danni fisici, psicologici e interpersonali che compromettono la qualità di vita e sono causa di costi elevati per i servizi sanitari [2]. Nonostante l’importanza di fornire una cura adeguata a questi pazienti, tra i clinici e i ricercatori non c’è ancora un consenso su come definire e trattare questi casi.

Nella letteratura dell’AN sono usate almeno cinque definizioni diverse per i casi che hanno un disturbo di lunga durata che, in ordine di frequenza, sono [3]:

  • AN cronica
  • AN grave e di lunga durata
  • AN di lunga durata
  • AN grave
  • AN persistente

Non ci sono anche accordi su quanto debba durare l’AN per essere classificata in questa categoria e in letteratura sono stati proposti in odine di frequenza le seguenti soglie [3]:>7 anni, > 10 anni, > 5 anni e 5-7 anni.

Esistono anche opinioni diverse se basti la durata dell’AN per definire per includere una persona affetta da AN in questa categoria, oppure sia necessaria la coesistenza di una o più delle seguenti caratteristiche [3]: fallimento dei trattamenti precedenti, peso corporeo estremamente basso, pattern persistenti comportamentali e cognitivi, danneggiamento della qualità della vita, scarsa motivazione al cambiamento e gravità della sintomatologia.

Un aspetto, spesso poco considerato, è valutare se le definizioni proposte dalle società scientifiche dei professionali della salute apportino un beneficio ai pazienti oppure alle organizzazioni sanitarie. Le definizioni possono, infatti, aiutare la comunicazione tra i professionisti, ma anche stigmatizzare i pazienti. Inoltre, l’impatto delle parole usate nelle definizioni può influenzare come i pazienti e i loro familiari sperimentano la malattia, inviando potenti messaggi sull’identità e sulla prognosi del disturbo.

Le definizioni usate hanno anche un impatto sul trattamento. Per esempio, l’uso del termine “AN cronica”, la definizione più usata dai clinici e dai ricercatori [3], implica che il disturbo vada gestito con trattamenti che non si pongono l’obiettivo della guarigione, ma che perseguono solo la riduzione del danno  A parziale supporto di questo approccio ci sono i dati di un recente studio randomizzato e controllato che ha confrontato due trattamenti psicologici adattati per i pazienti con AN grave e di lunga durata che avevano l’obiettivo di migliorare la qualità della vita ma non di promuovere il recupero di peso: la terapia cognitivo comportamentale adattata per i casi di AN gravi e di lunga durata (CBT-SE) e la gestione clinica specialista di supporto (SSCM-SE) [4]. A 6 mesi di follow-up, nonostante il minimo aumento dell’indice di massa corporea (BMI) (solo 0,5 kg/m2!), i pazienti trattati con la CBT-SE hanno ottenuto valori più bassi al punteggio globale dell’Eating Disorder Examination (EDE) e una maggiore disponibilità a guarire rispetto a quelli trattati la SSCM-SE. Inoltre, entrambi i trattamenti sono stati associati con un basso tasso di drop-out (15%).

Questo approccio, anche se a una valutazione superficiale sembra ragionevole, presenta alcuni problemi e potenziali rischi. Innanzitutto, a differenza di alcune malattie (per es. il diabete di tipo I), nell’AN non è stato fino ad ora trovato un marcatore biologico che indichi la irreversibilità del disturbo. In secondo luogo, i resoconti clinici e i dati di alcune ricerche indicano che un sottogruppo di pazienti guarisce dopo molti anni di AN: un esito che non si dovrebbe mai verificare se la malattia fosse veramente cronica. In terzo luogo, a differenza di altri disturbi che possono essere stabilizzati con una gestione finalizzata alla riduzione del danno (per es.con l’uso del metadone per il disturbo da uso di sostanze), non sembra possibile stabilizzare i pazienti con AN senza promuovere il recupero del peso, perché la malnutrizione ha degli effetti negativi fisici e psicosociali persistenti e progressivamente sempre più invalidanti.  Infine, il definire l’AN “cronica” porta inevitabilmente il paziente a perdere la speranza di poter guarire e, di conseguenza, ad abbandonare ogni tentativo di cambiare.

Anche l’uso di AN grave e di lunga durata ha delle implicazioni. “Grave”, infatti, implica che il disturbo è di lunga durata, non ha risposto a trattamenti ben condotti e ha una sintomatologia intensa. “Di lunga durata” indica, invece, che il disturbo deve durare per un certo periodo di tempo (per es. > 7  anni – la definizione oggi più usata). Ci sono comunque casi di AN di breve durata gravi, che hanno una sintomatologia intensa, con grave compromissione della qualità della vita e che  non rispondono ai trattamenti disponibili (anche i più intensivi). Al contrario, ci sono alcuni casi di AN di lunga durata che non sono particolarmente gravi, che hanno una sintomatologia non intensa, non compromettono in modo marcato la qualità di vita e rispondono al trattamento.

L’implicazione più importante  dell’usare la definizione “AN grave e di lunga durata” è quella di dare al paziente e ai suoi familiari un messaggio di speranza che la guarigione o comunque il miglioramento delle condizioni cliniche sia possibile, anche dopo molti anni di malattia e numerosi tentativi terapeutici falliti.  A supporto di questa affermazione uno studio, recentemente pubblicato sulla prestigiosa rivista Behaviour Research and Therapydall’equipe di Villa Garda, ha valutato gli effetti della terapia cognitivo comportamentale intensiva migliorata (I-CBT-E) in 66  pazienti adulti di età compresa tra 18 e 65 anni affetti da AN [5].

Trentadue pazienti (48,5%) sono stati classificati affetti da AN grave e di lunga durata (cioè con durata del disturbo > 7 anni), e 34 (51,5%) come AN non di lunga durata. Cinquantasei partecipanti (84,8%) hanno completato il trattamento, mentre 10 (15,2%) hanno lasciato il programma prima della fine delle 20 settimane di trattamento previste, senza nessuna differenza tra i due gruppi. Durante il trattamento, entrambi i gruppi hanno mostrato un simile e ampio incremento di BMI e un miglioramento significativo della psicopatologia specifica e generale. Dalla dimissione fino ai 6 mesi di follow-up si è verificato un minimo deterioramento che si arresta tra i 6 e i 12 mesi. Inoltre, a 12 mesi di follow-up, entrambi i gruppi hanno mostrato tassi simili di Good BMI Outcome(cioè BMI ≥ 18,5;  44,0% e 40,7%, rispettivamente) e di Full Response(cioè BMI ≥ 18,5 e assenza di psicopatologia; 32,0% e 33,3%, rispettivamente). Per quanto riguarda gli indicatori di gravità , la percentuale di pazienti appartenenti al gruppo con AN non di lunga durata di estrema gravità (cioè con un BMI < 15) è sceso dal 55,9% al basale al 12% a 12 mesi di follow-up, e simili diminuzioni sono state osservate anche nel gruppo con AN grave e di lunga durata (46,9% vs 11,1%) [5].

I risultati dello studio di Villa Garda hanno diverse implicazioni cliniche. In primo luogo, i dati dimostrano che la durata dell’AN nei pazienti che sono stati motivati a cambiare non sembra influenzare i risultati di un trattamento intensivo residenziale basato su un modello di guarigione. Questo suggerisce che non è ancora il momento di rinunciare a indicare trattamenti orientati alla guarigione ai pazienti con AN grave e di lunga durata. I terapeuti dovrebbero sempre cercare di ingaggiare i pazienti con AN grave e di lunga durata in trattamenti finalizzati alla normalizzazione del peso e alla remissione della psicopatologia, prima di concludere che non è possibile la guarigione. I programmi cha hanno lo scopo di minimizzare il danno e di migliorare la qualità della vita, de-enfatizzando il recupero del peso, dovrebbero essere considerati “solo” per i pazienti con AN che non hanno avuto alcun successo nei trattamenti ambulatoriali e residenziali ben condotti e/o con quelli che hanno una persistente scarsa motivazione al cambiamento, indipendentemente dalla durata del loro disturbo.

Infine, è da scoraggiare l’uso della definizione AN cronica perché, oltre a non avere un supporto empirico, può portare i clinici a proporre in modo prematuro programmi non orientati alla guarigione che hanno potenziali effetti iatrogeni, e a far perdere la speranza ai pazienti di potere guarire dal loro disturbo dell’alimentazione.

 

Referenze

  1. Steinhausen HC (2002) The outcome of anorexia nervosa in the 20th century. Am J Psychiatry 159 (8):1284-1293. doi:10.1176/appi.ajp.159.8.1284
  2. Wonderlich S, Mitchell JE, Crosby RD, Myers TC, Kadlec K, Lahaise K, Swan-Kremeier L, Dokken J, Lange M, Dinkel J, Jorgensen M, Schander L (2012) Minimizing and treating chronicity in the eating disorders: a clinical overview. Int J Eat Disord 45 (4):467-475. doi:10.1002/eat.20978
  3. Broomfield C, Stedal K, Touyz S, Rhodes P (2017) Labeling and defining severe and enduring anorexia nervosa: A systematic review and critical analysis. Int J Eat Disord 50 (6):611-623. doi:10.1002/eat.22715
  4. Touyz S, Le Grange D, Lacey H, Hay P, Smith R, Maguire S, Bamford B, Pike KM, Crosby RD (2013) Treating severe and enduring anorexia nervosa: a randomized controlled trial. Psychol Med 43 (12):2501-2511. doi:10.1017/s0033291713000949
  5. Calugi S, El Ghoch M, Dalle Grave R (2017) Intensive enhanced cognitive behavioural therapy for severe and enduring anorexia nervosa: A longitudinal outcome study. Behav Res Ther 89:41-48. doi:10.1016/j.brat.2016.11.006